1 / 67

Sociologia della Famiglia

Alcuni temi. Tanti modi di fare, cambiare, disfare famiglia: Nuove famiglie? . a) Le famiglie monogenitore. Madri sole, non sole, da soleNon pi

sloan
Download Presentation

Sociologia della Famiglia

An Image/Link below is provided (as is) to download presentation Download Policy: Content on the Website is provided to you AS IS for your information and personal use and may not be sold / licensed / shared on other websites without getting consent from its author. Content is provided to you AS IS for your information and personal use only. Download presentation by click this link. While downloading, if for some reason you are not able to download a presentation, the publisher may have deleted the file from their server. During download, if you can't get a presentation, the file might be deleted by the publisher.

E N D

Presentation Transcript


    1. Sociologia della Famiglia Ester Cois Anno Accademico 2007-2008

    2. Alcuni temi Tanti modi di fare, cambiare, disfare famiglia: Nuove famiglie?

    3. a) Le famiglie monogenitore Madri sole, non sole, da sole Non più coppia, ancora genitori Vecchie e Nuove monogenitorialità

    4. b) Le famiglie ricostituite Una costellazione di modelli Nuove figure sociali senza nome: i silenzi della Legge Il mercato delle seconde nozze

    5. c) Le famiglie unipersonali Singles per forza, singles per sempre? I due estremi del corso di vita La popolazione non cresce, ma crescono le unità familiari

    6. d) Le famiglie di fatto Le convivenze more uxorio Coppie eterosessuali senza matrimonio Coppie omosessuali senza generatività Il lungo percorso del riconoscimento: matrimonio, PACS, DI.CO, CUS

    7. …..E non se ne vogliono andare. La famiglia lunga del giovane adulto Tanguy e l’Italia Le ragioni di una convivenza sempre più lunga

    8. Sempre meno figli, sempre più lontani La fecondità e la partecipazione femminile al mercato del lavoro Le preferenze, le aspettative, i vincoli e le opportunità: la “migliore” madre biologica, la “migliore” madre sociale

    9. I “nuovi”padri Mammi per scelta? La divisione del lavoro secondo il genere: male breadwinner e female caregiver Ruoli scombinati, Welfare al passo La questione dei congedi parentali

    10. Il costo dei figli In denaro: costi (e obbligazioni) di mantenimento - Trasferimenti monetari - Detrazioni fiscali In tempo: costi (e obbligazioni) di cura - Servizi per l’infanzia - Congedi - Politiche dei tempi

    11. Le politiche per la conciliazione La doppia presenza femminile: doppiezza o valore aggiunto?

    12. La “generazione cuscinetto” Tra l’incudine e il martello: reciprocità negativa verso l’alto (genitori grandi anziani) e verso il basso (figli giovani adulti) Meno figli(e): meno risorse di solidarietà in prospettiva

    13. La sindrome del “nido vuoto” La famiglia come comunità di adulti Meno esperienze di confronto, cambiano i percorsi della socializzazione primaria

    14. L’evoluzione dei modelli di matrimonio Il matrimonio-alleanza Il matrimonio-fusione Il matrimonio-conversazione/negoziazione

    15. La nascita dell’amore romantico La scelta del partner: ci si sceglie per amore, ci si sposa per amore, ci si lascia per amore La scelta: amore versus razionalità L’omogamia sociale, il controllo tacito

    16. La rivoluzione delle sequenze di vita Matrimonio-sessualità-procreazione Sessualità- (forse) procreazione- (forse) Matrimonio Sessualità- (forse)matrimonio – (forse) procreazione

    17. Le due rivoluzioni contraccettive A) La rivoluzione maschile: il controllo del numero come forma di ascesi (sdoppiamenti di rappresentazione e doppia morale) B) La rivoluzione femminile: il controllo, del se, del quanto e del quando

    18. Il posto dei figli Figli come risorsa Figli come fine La violenza in famiglia come ibrido di vecchi e nuovi modelli

    19. Nuove figure familiari Sterili “per scelta”: tecnologie contraccettive Genitori ad ogni costo: tecnologie riproduttive

    20. Il fenomeno della ricoabitazione Chi torna a casa? Famiglie finite, famiglie ritrovate Chi ribalta i ruoli di autorità nei rapporti di filiazione: cambiano le regole

    21. I modelli di welfare familiare Paesi francofoni Paesi Scandinavi Paesi Anglosassoni Paesi a lingua tedesca Paesi Mediterranei

    22. La fine della coppia: anomalie del caso italiano Un divorzio a due tappe Dal divorzio sanzione al divorzio rimedio

    23. L’affidamento dei figli Affidamento esclusivo Affidamento alternato Affidamento condiviso

    24. Affido e adozione Dal dare un figlio a una famiglia Al dare un famiglia a un bambino/a

    25. Tre concetti non coincidenti Sesso Genere Orientamento sessuale

    26. Il lavoro familiare Lavoro di cura Lavoro di riproduzione sociale Lavoro domestico Lavoro di consumo Lavoro di interfaccia Lavoro di rete/di rapporto “Per amore” …..ma lavoro

    27. Alcuni esempi di fenomeni in itinere Il “tetto di cristallo” La segregazione di genere: orizzontale e verticale La femminilizzazione dei lavori di cura: carriere professionali e “carriere morali” Le “dipendenze buone” e le “dipendenze cattive”

    28. Una donna su cinque lascia il lavoro dopo la maternità Parlare di Pari Opportunità, in Italia, significa spesso parlare di donne. Non credo di dare un giudizio affrettato se dico che il nostro è un Paese fondamentalmente sessista, con un serio problema culturale riguardo al sesso femminile. Si va dal modello di donna proposto dalla TV popolare, sempre più tendente alla scollatura piuttosto che alla valorizzazione delle capacità personali, fino alle discriminazioni lavorative, passando per una generale sottovalutazione della donna che investe ogni campo della vita sociale. Una recente intervista a Chiara Saraceno, sociologa, evidenzia ancora una volta le incredibili disparità salariali fra uomini e donne a parità di ogni altra caratteristica. Condivido l’opinione dell’intervistata quando afferma che “il problema sta nella testa degli uomini, nei modelli culturali di genere che ancora spingono i datori di lavoro a considerare le donne un cattivo investimento, una risorsa poco spendibile e poco affidabile. Certamente hanno un peso le problematiche del welfare, come la divisione dei compiti in famiglia o la carenza di asili nido, ma a monte di turto c’è una cultura aziendale vecchissima: gerontocratica e datata storicamente e sociologicamente”.Questa situazione si somma, inoltre, ad un altro dato di cui si è parlato alcuni giorni fa su BlogGoverno: il notevole neo-analfabetismo messo in luce dal Rapporto sui diritti globali 2006. Il risultato dell’operazione è che, come evidenziato dalla commissione Pari Opportunità della Provincia di Firenze, promotrice del “Progetto Viola”, una donna su cinque lascia il lavoro dopo la maternità.

    29. …continua Il dato significativo è che le donne con un’istruzione medio–elevata (diploma o laurea) riescono ad essere maggiormente integrate nel mondo del lavoro, utilizzano maggiormente i servizi (come gli asili nido) e più difficilmente abbandonano il lavoro, mentre le donne con un’istruzione medio–bassa (elementari e medie inferiori) hanno una maggiore propensione ad abbandonare il lavoro.La ricerca ha evidenziato come, sul territorio fiorentino, all’arrivo di un figlio si accompagna un tasso di uscita del 19,2%. “Su 100 donne occupate all’inizio della gravidanza – ha illustrato la dottoressa Francesca Ricci di Eurema, una delle ricercatrici del Progetto Viola – un anno dopo la nascita del figlio, più di 19 hanno abbandonato il loro lavoro. E’ un dato in linea con gli ultimi dati Istat a livello nazionale”. Questo accade in un Paese in cui, stando ai dati ISTAT del 1994, il 55% delle donne ha subito molestie almeno una volta in vita sua, in cui la violenza sessuale è riconosciuta come reato contro la persona (e non conto la morale) soltanto dal 1996, in cui gli stupri sono per il 20,2% commessi dal marito o dall’ex, il 23,8% da un amico; da estranei soltanto il 3,5% delle volte. Il 90% delle vittime non denuncia il fatto. Sembra abbastanza chiaro come la cultura fondamentalmente maschilista del Bel Paese contribuisca ad alimentare l’insensibilità sociale al problema (che spesso non è riconosciuto in quanto tale) e le relative, impressionanti disparità di genere.L’Europa si è recentemente mossa in merito con una risoluzione che fa importanti promesse, ma appare evidente come in Italia nello specifico sia necessaria un “rivoluzione” culturale, un cambiamento radicale e compiuto. Per molto tempo la donna è stata considerata oggetto: sessuale, di compravendita, di utilizzo, di sfruttamento. Una delle grandi sfide mondiali dei prossimi anni sarà senz’altro recuperare l’immenso patrimonio umano e di conoscenze che va perduto in ogni momento grazie all’ottusa sottovalutazione del sesso femminile.

    30. Un esempio di riflessione interattiva Barbara Dichiara: Il problema dell’abbandono delle donne dopo la maternità è molto più serio di quanto si dica…con l’arrivo del bambino in moltissimi casi per la donna inizia una vera battaglia giornaliera per incastrare tempi e impegni…e la cosa più deprimente è che non è mai abbastanza. In primis ci sono le esigenze del neo-arrivato e il lato affettivo con la mamma che comunque non interessa a nessuno. Si pretende produttività al lavoro ma non si tiene conto della nuova situazione famigliare, per cui se la donna non lavora negli orari standard e per almeno otto ore è improduttiva per partito preso. In ultimo, ma non per importanza, vengono i servizi o comunque gli aiuti per permettere alla donna di riprendere il lavoro senza lasciare il figlio in balia degli eventi…un delirio tra carenze, orari diversi da quelli di lavoro, costi rilevanti…. In definitiva penso che l’attuale legislazione sia ancora legata a un modello di famiglia che non esiste più. Un modello dove c’erano nonne e parenti vari che abitavano se non nella stessa casa almeno “nei paraggi”ma sopratutto che potevano tranquillamente occuparsi del piccolo …adesso il più delle volte i nonni stanno ancora lavorando oltre al fatto che si abita molto frequentemente lontano…insomma: le esigenze delle famiglie sono cambiate ma le normative, i servizi e la cultura NO. E chi ci rimette è la donna-mamma oltre al bambino in alcuni casi. Possibile che sia così difficile da capire che diventare mamma non significare essere una nulla-facente? Possibile che non si arrivi a considerare che aiutando le mamme si incentivano anche le attività produttive?Evidentemente è davvero complicato. Mah. Carla Dichiara: Perfettamente d’accordo: il legislatore ha il dovere di recepire certe necessità, e esecutivo e giudiziario il dovere di far applicare le regole decise. Ma senza un sostanziale cambiamento culturale poco di tutto ciò cambierà.Mettiamoci poi che, appunto, poche aziende sono in grado di capire quali necessità abbiano le donne allo stato attuale delle cose.Credo che se noi uomini fossimo più intelligenti e collaborassimo maggiormente alle necessità familiari il mondo diventerebbe più rilassante…

    31. supramonte Dichiara: sono d’accordo con te. deve cambiare la cultura dominante, prima che la legge, ma d’altra parte la cultura richiede tempi lunghi per cambiare, la legge potrebbe aiutare questo passaggio. perchè non cominciare imitando quel provvedimento approvato in inghilterra che prevede la possibilità della paternità in opzione alla maternità? Anna Di solito le leggi non cambiano se non c’è la necessità che cambino. La necessità c’è. Ma penso che se si facesse una legge sulla paternità otterremmo che pochi ne usufruirebbero, visto che in casa la separazione dei compiti è spesso ferma al 1870… si potrebbe cominciare da lì, vero, ma la cosa mi perplime assai Carlo dichiara: La cosa mi perplime perché il grande problema rappresentato da noi uomini mi appare invalicabile: conosco pochi compagni/mariti/conviventi collaborativi abbastanza da chiedere loro la paternità senza sentirsi sminuiti, depressi, ingiustamente caricati di un lavoro che non gli compete…

    32. Lucia dichiara: Le contraddizioni nella materia sono molteplici perchè la cultura radicata insegna che certe cose (tra le quali la cura dei figli)sono delle donne (con qualche rara eccezione)…però i mariti si presume fossero presenti al momento del concepimento o no? Piacere e non dovere? A parte gli scherzi, cambiare la cultura è un lavoraccio che vogliono in pochi sopratutto in campo lavorativo perchè (anche grazie a queste divisioni di compiti predefiniti)i ruoli di potere sono ricoperti da uomini in alta percentuale, i quali non hanno nessuna voglia/interesse a modificare la mentalità lavorativa perchè significherebbe metterli in discussione…”come scusa, io faccio tardi e non posso aiutarti col piccolo perchè l’uomo ha da lavorà! Sono io che porto i soldini..” E vi pare poco come mentalità da mettere in discussione?Quando poi il marito/papà è anche imprenditore in quest’ultimo ruolo si trasforma nell’altra faccia della mentalità “E’no, lei devi lavorare le otto ore nelle fasce prestabilite..non può assentarsi se il bimbo ha dei problemi perchè questo non è un circo e lei dovrebbe saper gestire la sua famiglia fuori di qui…”. Le contraddizioni sono macroscopisce ma talmente tanto assimilate che non ci si fà caso.In ogni caso io resto dell’idea che se non si comincia con qualche intervento legislativo mirato le donne non avranno mai tutta l’aria di cui hanno bisogno per iniziare a urlare le proprie necessità e a far valere le potenzialità (in regime di collaborazione/parità lavorativa)…magari a forza di urlare qualche papà/datore di lavoro inizierà ad ascoltare… Francesca dichiara: Si accettano proposte: se qualcuno ha delle idee concrete su una legge che possa smuovere le acque in merito, vincendo alcune delle preesistenti resistenze e, nel contempo, sensibilizzando l’opinione pubblica (soprattutto maschile) le suggerisca

    33. Maria Chiara dichiara: “all’arrivo di un figlio si accompagna un tasso di uscita del 19,2%.” Probabilmente questo 20% sceglie di dedicarsi ai figli perchè lo VUOLE veramente: non perchè il marito è sessista, o perchè il capo la mette alla porte, ma solo perchè ad un lavoro alienante e mal pagato preferiscono l’alternativa del godersi i figli. E’ una tragedia? L’importante è che alle donne (come a tutti gl ialtri) sia consentito di scegliere…se poi qualcuna sceglie di non immolarsi all’altare del lavoro e di tenersi il tempo per sè e per i suoi cari, libera di farlo. Certo sarebbe bello incontrare anche qualche casalingo ogni tanto… Ignazio dichiara: Sono d’accordissimo con voi, chi lo VUOLE (e aggiungo io, PUò)fare veramante per libera scelta và rispettato. Ma francamente, non credo che in quella percentuale il numero di donne che vorrebbero seguire i figli piuttosto che lavorare e possono farlo sia poi così incidente. Perchè poi ,secondo me, in moltissimi casi volere non coincide con potere. Se poi ci si mettono le difficoltà professionali sul posto di lavoro, gli ostacoli pubblici nei nidi/asili e magari perfino una certa mentalità maschile in casa…. auguri. Marco dichiara: Come per la questione PACS, qui si rende necessaria un aggiornamento serio della legge obsoleta, appunto considerando tempi e modalita’ di vita. Non si deve aspettare che la mentalita’ cambi; dovremmo intanto razionalizzare a livello concreto, e poi la mentalita’ arriverebbe ad un suo equilibrio. Vero e’ che una certa mentalita’ e’ radicata nel DNA, a quanto sembra; una sorta di ottusita’ mentale, provincialismo, che ci attanaglia e che fra scherzi e lazzi sui luoghi comuni non ci fa fare passi avanti nel rapporto uomo-donna. Ginevra dichiara: […] A parere di chi scrive, dato l’enorme cambiamento socio-culturale intervenuto nel secolo scorso per quanto riguarda il lavoro femminile e la sconfortante situazione italiana, un provvedimento simile, alimentato da fondi consistenti, era auspicabile e necessario.

    34. Insieme ma in due case: le nuove coppie Gran Bretagna, prima rilevazione su un modello diverso di vita. In crescita anche in Italia. Sono circa un milione queste relazioni in Inghilterra Quanto è bello stare insieme senza stare insieme. Cena romantica, due coccole e poi lui (lei) torna a casa sua, nel proprio lettone, per svegliarsi il mattino dopo in un magnifico silenzio. È l’ultima frontiera delle coppie, un trend sociale ribattezzato «Lat», Living Apart Together, vivere insieme, ma ciascuno per conto proprio. Gli inglesi dell’Ufficio nazionale statistiche hanno calcolato che queste nuove coppie sono almeno un milione, felicemente (s)congiunte per i più svariati motivi: prudenza, convenienza, lavoro. Su un campione di 5.500 adulti è risultato che tre persone ogni venti uomini e donne tra i sedici e i cinquantanove anni non sposati né conviventi appartengono alla categoria Lat. La fascia più diffusa è tra i trenta e i 34 anni, il venti per cento del totale. Anche in Italia stanno aumentando le relazioni dei single- accoppiati. Già un anno fa un’indagine di Eta Meta Research aveva concluso che lo stile di vita del single è ormai un modello pure per chi non lo è. La coppia più celebre, che poi è la prima ad aver fatto storia, è quella di Sandra Mondaini e Raimondo Vianello. Ma sono in tanti ad aver scelto il modo di stare insieme separati. «Vivere separati è il primo passo, viene prima ancora della convivenza che anticipa il matrimonio», ha spiegato al Guardian Johan Hasky, studioso di statistica all’Università di Oxford. Il campione inglese, come l’italiano, è variegato. Si va dal genitore separato che preferisce restare solo per non perdere i benefici fiscali del suo status a quello che non se la sente di cominciare una nuova convivenza con figli in casa, dal professionista che non vuole rinunciare ai suoi spazi alla donna che intende godersi la libertà conquistata. Chiara Saraceno, sociologa della famiglia, ammette che «questo modo di vivere la coppia, se diventa permanente, può rivelare una mancanza di voglia di impegnarsi fino in fondo». Talvolta è soltanto una fase di passaggio, altre rivela un fortissimo desiderio di mantenere l’autonomia. Non a caso, ha fatto notare sul Times la sociologa Fiona Williams, convivere è più conveniente sul piano economico. Eppure, evidentemente, il silenzio al mattino è impagabile. Ma trovare la colazione pronta no?

    35. La violenza sulle donne: Cassazione, dieci annidi sentenze controverse LA VIOLENZA sessuale rientra tra i crimini su cui spesso la Cassazione è stata chiamata a esprimere un giudizio. Spesso le sentenze della corte Suprema sono state a favore delle donne. Ma non mancano i casi clamorosi e controversi. Uno degli ultimi e più discussi pronunciamenti risale al febbraio del 1999, quando la Cassazione stabilì che non è possibile parlare di stupro se la vittima indossa i blue-jeans. Questa tesi sosteneva infatti che non è possibile sfilare questo tipo di pantaloni "nemmeno in parte, senza la fattiva collaborazione di chi li porta". Pochi mesi dopo questa stessa tesi venne smentita da un'altra sentenza della Corte. Il tema delle sentenze shock della corte Suprema in materia di stupro torna d'attualità dopo la sentenza odierna, secondo cui la violenza sessuale è meno grave se la vittima ha gia avuto rapporti. Ecco una scheda sulle sentenze della Cassazione che hanno affrontato il tema dello stupro o delle molestie sessuali. Aprile 1994. E' "arduo ipotizzare" una violenza sessuale fra coniugi in caso di coito orale in quanto la donna "avrebbe potuto in ogni caso facilmente reagire e sottrarsi al compimento dell'atto da lei non voluto".

    36. Agosto 1997. Se il capufficio dimostra un "sentimento profondo e sincero" nei confronti della segretaria, non può essere accusato di molestie sessuali sul lavoro, anche se la invita a cena e tenta di baciarla. Gennaio 1998. Le lacrime di una donna violentata possono diventare un elemento che "inchioda" l'uomo che ha abusato di lei e valere come elemento probatorio "idoneo a garantire la sincerità delle dichiarazioni della parte offesa". Giugno 1998. La guancia di una donna non è una "zona erogena" ma baciarla senza il consenso dell'interessata ha "tutte le caratteristiche dell'atto sessuale". Aprile 1999. La Corte afferma che violentare una donna incinta al settimo mese non configura una circostanza aggravante del reato di violenza sessuale. E in più si afferma che è anche possibile applicare al violentatore la diminuzione della pena minima per attenuanti generiche perché il caso può anche essere ritenuto tra quelli di "minore gravità". Ottobre 1999. Sono sufficienti due violentatori per far scattare l'aggravante della violenza sessuale compiuta dal branco. Dicembre 1999. Non ha diritto a sconti di pena il violentatore che non riesce a congiungersi carnalmente con la vittima per la resistenza che questa gli oppone. .

    37. Febbraio 2001. La Cassazione stabilisce che la "palpata" ai seni è violenza sessuale al pari di tutti gli atti connotati da "repentinità" e imprevedibilità posti in essere da chi intende, agendo all'improvviso, "vincere la resistenza delle vittime". La condanna riguarda un impiegato di un istituto tecnico che toccava le allieve. Novembre 2001. I giudici ribadiscono che la circostanza che una donna indossi i jeans non è da sola sufficiente a escludere il reato di violenza sessuale, specie se la paura della vittima di subire altre violenze da parte dell'assalitore determina la possibilità di sfilare più facilmente i pantaloni. Dicembre 2002. Il fatto che una donna sia "disinvolta" e "disponibile all' approccio amicale non può costituire motivo per concedere all'uomo che l'ha violentata l'attenuante e la riduzione di pena prevista per i fatti di minore gravità". Novembre 2005. Nel caso riguardante due uomini la Cassazione sentenziò che la "palpatina" sui pantaloni di una persona configura il reato di violenza sessuale se chi la riceve non è consenziente

    38. Il lungo addio L'Istat ha da poco pubblicato dati recenti sul fenomeno della separazione e divorzio nel nostro paese. Ne emergono alcune continuità, ma anche discontinuità, che occorrerebbe tenere presenti sia nel dibattito legislativo (riforma del divorzio, affido condiviso) che nelle politiche sociali.

    39. Dalla separazione al divorzio Negli ultimi dieci anni sia le separazioni che i divorzi sono aumentati di circa il 59 per cento, passando da 51.445 separazioni e 27.510 divorzi nel 1994 a 81.744 e 43.856 rispettivamente nel 2003. Ci si separa più al Nord che al Sud: nelle regioni settentrionali, infatti, ci sono 6,4 separazioni ogni mille coppie coniugate (nove in Val D'Aosta, la Regione a più alta instabilità coniugale), a fronte di 3,9 nel Mezzogiorno (due in Basilicata, la Regione a più bassa instabilità). La percentuale di separazioni che si trasforma successivamente in divorzi, tuttavia, è rimasta abbastanza stabile, attorno al 60 per cento. Quasi la metà delle coppie che si separa, quindi, non va oltre il primo stadio del processo di scioglimento del rapporto coniugale. Ciò è in parte favorito dalla peculiare legislazione italiana, che obbliga ad almeno tre anni di attesa dopo la pronuncia della separazione prima di poter chiedere il divorzio. Tre anni sono lunghi. Impongono alle persone che vogliono rifarsi una vita di adattarsi a una sorta di limbo dal punto di vista dello stato civile e dei rapporti di solidarietà economica con quello che, di fatto, è un ex coniuge. Quando finalmente potrebbero chiedere di divorziare, se non hanno particolari interessi da salvaguardare e non sono intenzionate a risposarsi, ci rinunciano, anche perché questo doppio passaggio costa. In ogni caso, questo dato, unitamente a quello del tasso di separazione che, pur quasi doppio di quello di divorzio, è più contenuto del tasso medio europeo (1,4 separazioni per mille abitanti, di contro a due divorzi per mille abitanti in Europa), smentisce l'immagine periodicamente evocata di una forte fragilità dei matrimoni che andrebbe contrastata mantenendo le difficoltà nell'accesso al divorzio. Allo stesso tempo, conferma che la separazione è di fatto vissuta come l'evento che chiude il matrimonio, al punto che una quota di separati non sente la necessità di effettuare altri passaggi legali. È un effetto paradossale della "pausa di riflessione" legalmente imposta. Eliminare, o almeno ridurre, il periodo di attesa tra la separazione e il divorzio, o consentire di scegliere se accedere all'una o all'altro senza doverli fare in sequenza, permetterebbe a chi ha comunque intenzione di divorziare di non dover attendere a lungo, mettendo in difficoltà anche eventuali nuovi compagni/e e nuovi figli. Di più, l'incertezza dello statuto coniugale imposta nel periodo di attesa rende spesso più difficile, e certo non più facile, la ridefinizione dei rapporti e delle responsabilità verso i figli avuti con l'ex coniuge.

    40. I figli coinvolti Il numero dei figli minori coinvolti nella separazione dei genitori in effetti è consistente ed è costantemente e fortemente aumentato dagli anni Ottanta fino al volgere del secolo, nonostante la percentuale di coppie senza figli sia contestualmente cresciuta tra chi chiede la separazione: dal 28 per cento del 1980 al 40 per cento nel 2000, per scendere di nuovo al 31 per cento nel 2003. Negli ultimi anni il loro numero sembra essersi stabilizzato, con qualche segnale di diminuzione: i figli minori coinvolti in separazioni pronunciate sono stati 51.229 nel 2000 e 42.689 nel 2003. I figli minori costituiscono comunque la maggioranza di quelli coinvolti in una separazione: il 52 per cento nel 2003. Si tratta nella maggioranza dei casi di figli in età prescolare o scolare: il 61 per cento nel 2003 aveva meno di 11 anni. Nel Mezzogiorno, dove pure ci si separa meno, stante la maggiore fecondità dei matrimoni, la percentuale di figli minori coinvolti è più elevata: il 60 per cento. Il numero di figli minori coinvolti diminuisce nel caso del divorzio, dato appunto che questo avviene almeno tre anni dopo la separazione. L'affidamento dei figli nel caso della separazione dei genitori continua a privilegiare di gran lunga la madre come "genitore più adatto" (84 per cento dei casi), e ancor più quando i figli sono molto piccoli. Negli ultimi dieci anni, tuttavia, si è assistito a un costante, anche se lento, aumento dei casi di affidamento congiunto o alternato: l'1,2 per cento di tutti i casi di affidamento nel 1984, l'11,9 per cento nel 2003. Questo tipo di affidamento ha ridotto non solo la tuttora amplissima quota degli affidamenti esclusivi alla madre, ma ancor di più quella esigua di affidamenti esclusivi al padre: era del 6,4 per cento nel 1994, è scesa al 3,8 per cento nel 2003. Come ci si può aspettare, dato che richiede una disponibilità dei genitori a collaborare nonostante la separazione, l'affidamento congiunto o alternato è più frequente nelle separazioni consensuali che in quelle giudiziali. È anche più frequente al Nord (più del 15 per cento nel 2003) che non al Sud (5,3 per cento). Sembrano anche in questo caso emergere due Italie.

    41. Una, in cui il tasso di instabilità è più alto (anche perché più alta è la quota di mogli che ha un lavoro remunerato e quindi può permettersi di uscire da un matrimonio che non funziona), ma le separazioni sono più consensuali e la disponibilità a rimanere co-genitori è più alta. L'altra, in cui i legami coniugali sono non solo più fecondi, ma più solidi, per necessità o per virtù, ma le separazioni sono più conflittuali, ci sono più figli minori coinvolti e la disponibilità a cooperare alla pari come co-genitori più ridotta. Per altro, è aumentato in generale anche il contenzioso tra ex coniugi, ovvero le richieste di revisioni degli accordi sull'affidamento dei figli e sull'assegno di mantenimento, segnalando come si tratti di decisioni non solo delicate, ma sempre meno pacificamente condivise dagli ex coniugi e talvolta dai figli. Anche su questo occorre riflettere nella discussione sulla proposta di legge sull'affido condiviso.

    42. I rischi dell'affido esclusivo L'affido esclusivo alla madre presenta non irrilevanti rischi economici per lei e per i figli, specie se minori. Nonostante in Italia le madri sole con figli giovani – per lo più separate e divorziate – siano nel mercato del lavoro in percentuale superiore alle madri coniugate, nel 2003 la metà delle madri sole con figli fino a 18 anni ha dichiarato di avere risorse scarse o insufficienti e oltre il 12 per cento era povero (a fronte del 10,6 per cento di incidenza della povertà nelle famiglie in generale nello stesso anno). Le cause sono diverse e combinate. Le famiglie delle mamme sole sono famiglie con un unico percettore di reddito e dunque in generale più esposte al rischio di povertà delle famiglie in cui sono presenti entrambi i genitori ed entrambi sono occupati. L'unico percettore di reddito, inoltre, è una donna con carico familiare, ovvero si tratta di un percettore "debole" sul piano contrattuale (e il 13 per cento circa ha un contratto di lavoro a termine). Anche se il padre è tenuto a concorrere al mantenimento dei figli, gli assegni di mantenimento non sempre – per necessità o per esito delle contrattazioni post-separazione – sono adeguati. L'importo medio dell'assegno di mantenimento per un figlio è di 382 euro, per tre figli di 700 euro. Da questo punto di vista, l'indicazione presente nella legge sull'affidamento condiviso tesa a individuare criteri oggettivi per calcolare il costo dei figli e la quota spettante a ciascun genitore costituisce un enorme miglioramento, purché la sua attuazione sia affidata a meccanismi che diminuiscano, non aumentino, il contenzioso tra coniugi.

    43. Single d'Italia contenti e ottimisti ma comunque in cerca d'amore Il profilo dei cuori solitari da un'indagine realizzata da Parship 2005 Sfatati i luoghi comuni: non solo sesso, shopping e solitudine Single d'Italia contenti e ottimisti ma comunque in cerca d'amore Su internet la ricerca del partner non per una notte ma per la vita Il sesso non è un problema, quel che manca è un "punto di riferimento“ NON come Bridget Jones, ma nemmeno come Sex&the City. Non solo consumismo e insoddisfazione ma nemmeno sesso selvaggio e orgoglio per la propria solitudine. Smentiscono i cliché, i single italiani, ottimisti sul futuro, alla ricerca di un rapporto serio e duraturo, appena ansiosi di trovare "un punto di riferimento". Che, alla fine, è quel che manca un po' a tutti. .

    44. A scattare un'istantanea dei cuori solitari d'Italia è un'indagine realizzata, lo scorso giugno, da Parship 2005, il sito di ricerca del partner online, in collaborazione con Makno&Consulting, su un campione di 800 single (secondo il censimento 2001, in Italia sono circa 6 milioni 800 mila) fra i 25 e i 64 anni, che usano internet. Ed emerge che a cercare l'anima gemella online sarebbero poco meno di due milioni di uomini e donne, che affidano al computer la ricerca del partner ideale non per una notte, ma per tutta la vita (o almeno gran parte di essa). Profilo. I single che hanno risposto all'indagine sono, nella maggior parte dei casi, nubili-celibi (93 per cento) e vivono con i genitori (54 per cento); quelli che vivono da soli sono un terzo del totale. In quanto alle professioni, la gran parte dei single svolge un lavoro da impiegato (44 per cento). Reddito medio, fra i 1250 e i 1500 euro netti al mese. Sentimenti. Soli, da più di un anno. Questa la condizione della maggioranza dei single, anche se c'è un buon 32 per cento che non vive un rapporto di coppia da più di tre anni. Ma la mancanza di un partner, si sente? Non troppo: per la gran parte, infatti, non rende né felici né infelici. Ma oltre il 40 per cento si dice scettico sull'esistenza di single "convinti". In quanto all'ultimo rapporto, i più ne conservano un ricordo positivo, mentre i brutti ricordi riguardano il 28 per cento degli intervistati. Comunque, la percezione del futuro è all'insegna dell'ottimismo, caratterizzata dalla ricerca di un rapporto duraturo. Sesso. Sbaglia chi pensa che i sigle siano affamati di sesso. Anche se molti affermano di "pensarci spesso", solo il 9,8 per cento considera l'astinenza come un problema. Per il 46 per cento, la preoccupazione principale resta la mancanza di un punto di riferimento.

    45. Autoritratto. Come si autodefinisce un single: spontaneo, ama corteggiare ma preferisce essere corteggiato, è informato sulla politica e attento al proprio aspetto fisico. Anche per questo preferisce una alimentazione equilibrata. E cucina volentieri. Tempo libero. Assolti i vari impegni, la maggioranza dei single dispone al massimo di 20 ore di tempo libero alla settimana (per il 31 per cento "sufficiente", per il 27 per cento "insufficiente", per la maggiorparte "a volte basta, a volte no"). Poco o molto che sia, si trascorre soprattutto da soli; un single su tre lo passa con altri single, e circa uno su quattro vede un amico o un'amica che, però, ha un rapporto di coppia. In netta minoranza quelli che frequentano delle coppie: solo il 5 per cento. Il rapporto ideale. Per il 37 per cento, il partner dovrebbe essere più o meno coetaneo, ma c'è pure (22 per cento) chi non ha preferenze. Imprescindibili, invece, alcune qualità: prima l'onestà, seguita da fedeltà, voglia di vivere, poi gentilezza, umorismo, naturalezza e sessualità. Ne deriva che fiducia, fedeltà e comprensione reciproca sarebbero i punti fermi di un eventuale rapporto di coppia. Amore e carriera. Dall'indagine Parship, emerge che la maggioranza crede che successo e rapporto di coppia non siano incompatibili, ma anche che i single siano avvantaggiati sul piano della carriera e che, quindi, le posizioni manageriali non siano appannaggio delle persone sposate, o con un rapporto di coppia stabile. Internet. Il luogo-principe per connettersi a internet è l'abitazione, mentre l'ambito di lavoro è al secondo posto poiché molti sono i single che non hanno un'occupazione (studenti, pensionati) e altrettanti quelli (tutti i lavori manuali) che non hanno possibilità di connettersi mentre lavorano. L'uso del mezzo sembra concentrato soprattutto sui servizi-base, portali e mail services

    46. Come cambia la famiglia italiana. Resiste il modello tradizionale, ma crescono le coppie senza figli e le trentenni single che vivono in casa. Trentenni senza figli né marito che rimangono a vivere con i propri genitori; è questo un primato che l’Italia detiene rispetto agli altri paesi europei. La formula tradizionale italiana di famiglia ha subito infatti molte trasformazioni, lasciando il posto ad una pluralità di altre situazioni: famiglie unipersonali, coppie senza figli e famiglie monogenitoriali. E’ questo uno dei dati che emergono dall’indagine voluta dall’Eurispes in occasione della festa della donna: “Quattro ritratti per l’8 marzo” che indagano sul ruolo della donna in famiglia, in politica, al lavoro e rispetto al fenomeno migratorio. Secondo l’indagine condotta dall’Eurispes, l’Italia oscilla dunque tra due opposti: da un lato “il singolo impegnato nella progettazione del proprio cammino biografico e professionale” e dall’altro “l’esperienza del legame, verso la quale il singolo appare orientato, e che persegue senza però rinunciare alla propria individualità”. D’altra parte conciliare i tempi di vita e di lavoro ha sempre presentato per le donne un grande problema e la cura dei figli e della famiglia è quasi sempre risultata penalizzante sul versante professionale, nel quale la donna, sottolinea l’Eurispes, soffre spesso discriminazioni da parte del datore di lavoro.

    47. Il modello familiare classico della coppia con figli tuttavia resiste saldamente e rappresenta la scelta del 72,4% delle trentenni italiane anche se, tra queste, il 9,3% ha formato una coppia senza figli. Questo rappresenta secondo l’indagine un modello familiare “in continuo aumento a partire dai primi anni Ottanta” perché ci si sposa sempre più tardi, ma soprattutto a causa della “professionalizzazione femminile”, che può arrivare a comportare anche la rinuncia ai figli. La maternità infatti è “normalmente” considerata come un fattore di limitazione alla carriera femminile e sono soprattutto le donne dirigenti ad esserne preoccupate e a non sentirsi ancora pienamente supportate nella conciliazione tra questi due impegni. Lavoro femminile e dinamiche socio-demografiche sembrano dunque elementi inscindibili.

    48. In Italia, il numero medio di figli per donna è sceso infatti dal 2,42 del 1970 all’1,2 del 1999, anche se il 2000 ha fatto registrare un incremento della natalità (543.039 contro le 500.021 del 1999) e chi esperi promettono che l’“onda lunga” della ripresa della fecondità durerà fino al 2005. Si sceglie di sposarsi soprattutto al Sud (91,9% contro l’87,3 del Nord e l’86,3 del Centro), mentre la convivenza predomina al Centro (il 10% contro il 6,4 del Nord e il 3% del Sud), con il risultato che alla diminuzione del numero dei matrimoni (da 318.296 del 1988 a 276.570 del 1998) corrisponde una crescita della massa delle convivenze. Inoltre sottolinea l’Eurispes la rivoluzione culturale ha determinato un “vistoso incremento delle separazioni”, dovute soprattutto alle richieste delle donne. “La società si aspettava che la donna sopportasse e comprendesse e riversava soprattutto su di lei l’onere della continua mediazione e dei piccoli, grandi compromessi su cui si fondava il matrimonio. – scrive l’Eurispes - Ora la situazione sembra essersi completamente capovolta: delle domande proposte nel biennio 1997-1998, ben il 68,1% è di iniziativa femminile. La donna che chiede la separazione è una persona conscia dei suoi diritti, con un’autonomia che le deriva dal suo lavoro, e che vuole dimostrare, innanzitutto a se stessa, di non essere succube o perdente”. Ma non tutte le separazioni sfociano in un divorzio e questo perché, secondo l’indagine non tutti i coniugi separati vogliono contrarre un nuovo matrimonio.

    49. Per tanti che scelgono la via dell’unione, legalizzata o meno, quanti scelgono di essere single? La cifra totale dei single non sposati è considerevole, e ripartita equamente tra celibi (840.000) e nubili (806.000). Ma il modello italiano, sottolinea l’indagine, riguarda soprattutto anziane al di sopra dei 65 anni (2.090.000), piuttosto che giovani con meno di 25 anni, che decidono di abbandonare la casa materna in cerca di una maggiore libertà. Su circa 3 milioni di quelle che l’Istat chiama “nuove condizioni familiari”, ci sono oltre 2 milioni tra single non sposati, separati o divorziati, e altrettanti vedovi (2.310.000 unità), che rappresentano la maggioranza delle persone sole; tra questi, le donne costituiscono la netta maggioranza (1.957 unità rispetto ai 353.000 vedovi maschi).

    50. L'integrazione tra i popoli ha volto e mani di donna. I minori il segno della ricerca di stabilità Donne non solo come fulcro della famiglia immigrata, ma soprattutto come trait d’union tra differenti culture; come spesso la storia ha dimostrato infatti le donne, spesso silenziosamente, hanno contribuito ad importati evoluzioni culturali e sociali e, sottolinea l’indagine Eurisp dedicata a loro, “l’andamento e l’esito dei flussi migratori non fanno eccezione alla regola, delineando per le donne un ruolo sempre più strategico nella capacità di creare le basi per una reale integrazione delle comunità di appartenenza su un suolo straniero”. Indicativo a questo proposito che nel 1999 più del 15% delle immigrate fosse regolarmente iscritta all’Inps come collaboratrice domestica, con notevole concentrazione nelle regioni del Centro e nel Sud. Considerando il numero di lavoratrici irregolari, la presenza delle donne immigrate nelle famiglie italiane diventa, secondo l’indagine, ancor più significativa, lasciando immaginare che “gli incontri diretti tra le diverse culture siano essenzialmente mediati dalle figure femminili, dall’una e dall’altra parte, nella silenziosa quotidianità delle necessità domestiche”.

    51. La presenza femminile nella popolazione immigrata in Italia è stata inferiore rispetto a quella maschile fino alla seconda metà degli anni Novanta, quando lo scarto si è ridotto grazie ai ricongiungimenti familiari con il proprio coniuge, ma anche perché tante donne hanno scelto di lasciare il paese di origine autonomamente. Il numero delle donne immigrate è stata generalmente più basso per le comunità in cui prevale la cultura musulmana e molto più alta se non superiore per alcuni paesi dell’Europa dell’Est, dell’Africa Centrale e dell’Estremo Oriente, dove si è spesso assistito a progetti migratori femminili del tutto autonomi. Le straniere in Italia vivono soprattutto nel Centro Italia mentre il Nord ed il Meridione si caratterizzino per una percentuale inferiore alla media italiana. Tra le comunità che storicamente hanno fatto registrare la presenza di un maggior numero di donne ci sono la Thailandia (87,1% di donne sul totale), l’Eritrea (76,8%) e Cuba (84,6%), tra i gruppi di più recente immigrazione vanno segnalati, per la presenza di donne, la Russia, l’Ucraina ed il Brasile, nei quali le percentuali maschili non superano il 30%. Assente invece, nelle prime 10 comunità per incidenza percentuale delle donne, le Filippine, che, se in valori assoluti resta il paese con la maggior presenza femminile in Italia (65,7%), ha registrato negli hanno una diminuzione del flusso migratorio femminile.

    52. Un indice significativo della volontà di integrazione è senza dubbio determinato dalla presenza di minori poiché nel momento in cui decide di portare i figli con sé o si decide di averne, si rende più improbabile il ritorno nel proprio paese. Nel periodo che va dal 1996 al 1999 i minori iscritti all’anagrafe sono aumentati dell’83%; considerando che il numero dei minorenni stranieri realmente presente in Italia è superiore a quello conteggiato dall’anagrafe, il dato, secondo l’Eurispes, rappresenta una molto significativa conferma delle tendenze alla stabilità mostrate dalla popolazione straniera nel nostro Paese. Quello della maternità, tuttavia, sottolineano gli osservatori, rimane per le donne straniere un momento difficile, poiché manca loro solidarietà e appoggio della comunità d’origine e dei significati che ogni cultura conferisce alla nascita di una nuova vita.

    53. Donne e lavoro. Sono più preparate, ma fanno carriera solo se pensano come uomini Donne come re Mida, ma al contrario: quando superano gli uomini nelle posizioni ritenute prestigiose, si declassa la professione. Un esempio quello dell’insegnamento: quando la presenza femminile è cresciuta, il mestiere dell’insegnante è divenuto sempre meno appetibile per gli uomini, trasformandosi da professione elitaria e riconosciuta a lavoro qualunque, ultima scelta dei laureati di belle speranze. E’ questo il parallelo utilizzato dall’Eurispes, nella sua indagine dedicata alle donne, per l'8 marzo, per spiegare questo difficile ed ambiguo rapporto. Il tasso di disoccupazione femminile, dal 1995 al 2000, è diminuito dell’1,7%, un valore ben distante da quello maschile (0,9%), tanto da far dire agli osservatori che “l’andamento occupazionale in Italia è fortemente legato all’inserimento più o meno stabile delle donne nel mercato del lavoro”. Le occupazioni atipiche hanno offerto alle donne più possibilità d’ingresso nel mercato, ma troppo spesso questo si rileva non una scelta consapevole quanto una delle poche alternative disponibili che viene accettata per poter entrare e rimanere nel mercato. Stesso discorso vale per il part-time, alla quale le donne ricorrono frequentemente, dopo aver sofferto per anni la mancanza della terza alternativa all’aut aut tra carriera o figli, come scelta forzata per poter conciliare desiderio di maternità e aspirazioni professionali.

    54. Il panorama delle donne che lavorano non mostra grandi novità. Le donne continuano a scarseggiare nei posti di potere, anche se nel complesso qualche cambiamento in positivo si registra rispetto al passato: sono aumentate, seppur di poco, le donne imprenditrici (+ 0,3%), le libere professioniste (+0,5%) e le posizioni di quadro tra le lavoratrici dipendenti (+ 0,1%), segno che le iniziative per la promozione dell’imprenditoria femminile stanno dando i loro frutti. Dal 1998 è aumentata seppur lievemente anche a presenza nel settore del commercio, in cui l’incidenza femminile è passata dal 16,1% al 16,3% mentre quella maschile è diminuita di oltre un punto percentuale. Come sottolinea l’indagine, si presentano nel mercato del lavoro con titoli superiori a quelli maschili cercando di adeguarsi alle nuove richieste: sono aumentati le lauree, i diplomi universitari e il generale livello di istruzione media superiore, con un ritmo maggiore rispetto ai maschi, che, al contrario, si laureano di meno (9,4% attuale contro il 10,3% del 1998). Continuano tuttavia ad essere lontano dai ruoli di potere.

    55. La “vecchia” donna in carriera, sottolinea il rapporto Eurispes, “si è potuta far spazio in un mercato disegnato da e per gli uomini, solo a patto di assumere una mentalità lavorativa prettamente maschile, in cui non sono ammesse assenze fisiche e mentali da maternità, talmente rassegnata all’immodificabile status quo, da dichiarare lo stesso livello di soddisfazione retributiva anche laddove lo scarto con i colleghi maschi era e resta notevole”. In cifre questo vuol dire solo lo 0,9% delle lavoratrici riveste un ruolo da dirigente, contro il 2,1% degli uomini, nel lavoro dipendente mentre i “lavori da donna sembrano porsi come attività di nicchia, distanti dal modello dominante di prestigio, peraltro sorretto dalla porzione numericamente meno consistente della società”.

    57. Lo Stato sociale si fa piccolo donne costrette a tornare a casa Dalle scuole alla sanità i servizi diminuiscono o diventano più cari: a subirne le conseguenze è l'universo femminile Le storie di Lucia, estetista di Roma, e Livia, notaio di Napoli: tutt'e due obbligate a "ritirarsi" per fare le madri a tempo pieno Lucia ha 29 anni, fa l'estetista in un negozio di periferia, tiene un quaderno con i suoi appuntamenti e con le cifre: ore 9, pulizia viso, 20 euro; ore 11, ceretta intera, 20 euro. Lavora tutto il giorno, è molto brava, nel quartiere chi ha bisogno chiede di lei. Arriva a 6-700 euro al mese, niente assicurazione niente contributi perciò una parte li mette via per un fondo pensione. A novembre ai suoi clienti ha lasciato un biglietto: dall'anno nuovo smetto, rivolgetevi a Ginevra. Lucia smette di lavorare perché non hanno preso sua figlia al nido. A Roma come a Bologna e a Milano e in tutta Italia quest'anno negli asili nido non c'erano posti per tutti: seimila, ottomila posti in meno a botta. "Mi hanno detto non c'è posto, non c'è niente da fare. Mia madre non può aiutarmi, abita lontano e lavora anche lei. Mia suocera non sta bene siamo noi che dobbiamo accudirla. Pagare un asilo privato mi costerebbe più di quello che guadagno: 350 euro al mese, più la baby sitter fino alle otto. Perciò cosa devo fare? Sto a casa io. Certo che mi dispiace, ho studiato tanto perché volevo avere un lavoro mio, dei soldi miei e non dover chiedere a nessuno. L'idea di dipendere da mio marito non mi piace, però pazienza".

    58. Le donne tornano a casa. Addestrate alle rinunce, alla prima falla di sistema tornano indietro nel tempo e nello spazio: a casa, come cinquant'anni fa, ad accudire i figli e i vecchi. Mantenute dai padri o dai mariti, inchiodate al ruolo domestico che certo può essere anche lusinghiero e gratificante per chi ne abbia la vocazione, ma se sei costretta è un'altra storia. Lucia che dal primo gennaio rinuncia al lavoro è il punto esatto in cui i discorsi della politica diventano realtà. I tagli alla spesa pubblica, all'assistenza, alla scuola, alla sanità (quello che per anni si è chiamato Stato sociale e che ora che sta sparendo si chiama welfare, magari in inglese l'evanescenza si nota meno) comportano tanto per cominciare che qualcuno deve pur occuparsi dei bimbi dei malati dei genitori anziani. Certo che ci sono le strutture private che funzionano benissimo, però costano: se guadagni 600 euro non ne puoi pagare 350 di asilo, né puoi chiamare l'infermiera a domicilio per tua madre e poi pagare anche l'affitto, e fare la spesa. Così le donne tamponano la falla. Già in Italia il tasso di occupazione femminile è tra i più bassi d'Europa: al sedicesimo posto, dopo c'è solo la Grecia. Il danno - per chi non voglia tener conto del salto all'indietro culturale, decenni di battaglie per l'emancipazione l'uguaglianza dei diritti le pari opportunità che hanno battezzato persino un ministero - il danno è anche economico. Non guadagnano, non spendono: hai voglia di fare campagne di pubblicità per invitare la gente a muovere l'economia, se non lavori soldi da spendere non ne hai.

    59. Livia fa il notaio a Napoli. Faceva, studio associato. Poi lei e suo marito hanno adottato un bambino bosniaco, 5 anni, superstite di una famiglia massacrata. Il bambino sta bene fisicamente, però bisogna immaginarsi cosa pensa cosa sogna. Ha qualche problema di inserimento e di apprendimento, dicono in gergo neutro. A scuola sta solo in un angolo, è violento con chi si avvicina. Non è difficile capire che ha bisogno di aiuto. "In base alla riforma della scuola pubblica - spiega Livia - la difficoltà di apprendimento che deriva da problemi familiari o affettivi non è riconosciuta come handicap. E' una disabilità, e diventa complicatissimo in queste condizioni avere un insegnante di sostegno. Io ho lasciato il lavoro già quest'anno e lo seguirò personalmente in futuro, e sono fortunata perché me lo posso permettere. Mi domando se quei politici che invitano ad adottare figli anziché ricorrere alla fecondazione assistita sappiano di cosa ha bisogno un bambino che ha conosciuto il dolore. Naturalmente una famiglia, ma poi anche una rete di assistenza pubblica. La nostra scuola è al collasso, non ce la fa: certo, sarebbe più facile per noi inserirlo in una privata con 12 bambini per classe anziché 28, e due insegnanti fissi in aula. Però ne facciamo una questione di principio, la scuola pubblica deve essere il posto di tutti". La riforma Moratti ha previsto l'abolizione del tempo pieno nella scuola dell'obbligo. Figli a casa all'una anziché alle cinque. C'è stata in tutta Italia una rivolta di popolo fra genitori e insegnanti, si è mossa l'Associazione nazionale dei Comuni, infine nel decreto attuativo della riforma è stata reintrodotta una formula spuria che somiglia al vecchio dopo scuola, e che sarà comunque valida solo per un anno: il prossimo. L'abolizione del tempo pieno (il 17 gennaio ci sarà a Roma una manifestazione nazionale per contestarla) comporta per i bambini un danno didattico, per il paese un mutamento sociale. Altre donne torneranno a casa.

    60. "Saranno le donne, naturalmente a farsi carico del danno - dice Bruna Sfera, insegnante elementare - le madri e le maestre. Coi figli che tornano a casa per pranzo quante donne potranno continuare a lavorare? Quante si sentiranno in coscienza di lasciarli al parcheggio del dopo scuola con precari sottopagati assunti a fare da baby sitter? Si vogliono favorire le scuole private, è chiaro: ma poi di questi tempi quanti sono quelli che possono permettersele? E' una riforma per ricchi". Precari sottopagati. "La scuola dev'essere una priorità", ha detto Ciampi nel messaggio agli italiani. Ma le insegnanti della scuola dell'obbligo, in grandissima prevalenza donne, guadagnano in un mese quanto un idraulico di successo in un giorno. Lo studio, la ricerca sono considerati settori non produttivi. La nuova Finanziaria ha tagliato altri fondi riducendoli, in certi settori, quasi a nulla. Un ricercatore con contratti a termine vive con 800 euro al mese. Uno di ruolo, che abbia vinto un concorso, con 1200. Lo studio finalizzato all'insegnamento è diventato un non-senso economico, oltre che una via crucis deprimente: si arriva quasi a 40 anni sulle spalle della famiglia di origine e ci si avvia verso i 50 senza essere in grado di mantenere la propria, ammesso che nel frattempo si sia riusciti a farsene una. E' successo nell'arco di un ventennio. Fino alla generazione scorsa chi sceglieva lo studio e la carriera universitaria arrivava a 40 anni in grado di mantenere una famiglia anche numerosa col suo solo stipendio: mantenere in modo più che dignitoso, e in un contesto di prestigio sociale.

    61. Questa è la storia di Gloria, 38 anni, che lavora all'università adesso: "Dopo la laurea ho avuto un dottorato per quattro anni, e sono arrivata a 28. Poi sono cominciati i contratti a termine, mi davano circa 400 mila lire al mese per fare attività didattica: esami, lezioni. Ovviamente vivevo dai miei, ci sono rimasta fino a 32 anni. Una sede universitaria molto lontana da Roma mi ha offerto un contratto co. co. co. per 1200 euro lordi all'anno. Mi sono messa a fare supplenze, aspettavo un concorso. Quello che guadagnavo non copriva le spese di viaggio, praticamente lavoravo gratis. Ovviamente ho dovuto rinunciare ai figli, come tutte le mie colleghe che non hanno il sostegno della famiglia o un compagno che le mantenga. Non ti puoi permettere di avere un figlio in queste condizioni: la maternità non è prevista, non è pagata. Devi smettere di lavorare, non prendi una lira e non sai se avrai ancora il posto al ritorno: impossibile. Così sono arrivata a quasi 40 anni, adesso ho un assegno di ricerca di 1000 euro al mese, più o meno. Può durare per quattro anni al massimo. Poi dovrò aspettare un altro concorso. Se mi va bene comincerò ad avere un ruolo didattico e uno stipendio che mi consenta di vivere da sola verso i 50 anni". 50 anni per debuttare in una vita adulta autonoma per una donna è un po' tardi. E' più il tempo dietro che quello che resta. Sarà anche per questo che alla facoltà di Fisica della Sapienza quest'anno, alla facoltà che fu di Fermi, a fine ottobre risultavano iscritte cinque matricole. Cinque. Speriamo che almeno tre diventino insegnanti di fisica nei licei per il 2012. Non conviene, studiare: non rende. Alle donne di questi tempi meno che mai: tra rinunciare al lavoro di estetista per accudire un figlio e rinunciare ai figli per lavorare gratis è comunque una triste lotteria.

    62. Donne in politica: c'è una soglia invalicabile anche per le più agguerrite. Il ''silenzio'' dei media La difficoltà delle donne ad emergere nel mondo del lavoro in ruoli di potere, sembra non mutare nell’ambito politico-istituzionale, dove suggeriscono, gli osservatori Eurispes, “si finisce sempre per concordare con la teoria del tetto di cristallo, ovvero quella soglia invisibile, eppur presente, oltre la quale anche la parte più agguerrita non riesce ad andare”. Così si scopre che negli enti di ricerca solo una donna su trenta arriva alla massima carica istituzionale, mentre nelle università i professori ordinari di sesso femminile corrispondono all’11,1%. Le percentuali scendono man mano che il ruolo di potere direttivo-gestionale si fa più importante: solo un 7% di donne ricopre l’incarico di preside e solamente il 3% è stato eletto rettore. La magistratura e la carriera diplomatica non fanno eccezione, anzi in questo ambito la situazione delle donne è peggiore: il 4% di presidenti di sezione è donna mentre non esistono donne ambasciatrici.

    63. L’indagine si sofferma in particolar modo sulla carriera politica, considerata un “significativo esempio delle dinamiche di potere femminile”. Nell’attuale legislatura la presenza femminile rappresenta solo l’11,5% dei deputati e l’8,3% del Senato e il più alto tasso di rappresentanza femminile si registra nei gruppi parlamentari dei Democratici di Sinistra (24,3% di donne alla Camera e 12,3% al Senato) e di Rifondazione Comunista (36,4% alla Camera), mentre per Alleanza Nazionale, Margherita e il CCD-CDU siamo di molto al di sotto della media. Inoltre il 60,6% dell’intera rappresentanza femminile alla Camera si trova all’opposizione (44 donne in totale), mentre la Casa delle Libertà non supera, con 23 esponenti , il 32,4% del totale delle elette. Un fenomeno sottolinea gli esperti non nuovo certamente ed in parte determinato dalla normativa che obbligava l’alternanza uomo/donna nelle liste proporzionali nelle circoscrizioni elettorali regionali, per l’elezione del 25% della Camera dei Deputati.

    64. Ma quanto spazio riservano le reti televisive nazionali alle donne? Appaiono nei Tg più in Rai che in Mediaset ma i dati raccolti dalla Commissione Nazionale sulla parità dimostrano un’invisibilità evidente della rappresentanza politica femminile. Le donne tra i 45 e i 54 anni sono quelle che parlano molto più spesso di politica (7,1% tutti i giorni e 20,3% qualche giorno a settimana), ma i valori della stessa fascia maschile risultano doppi. Nel 2000, sommando le ore, i minuti e i secondi di discorso diretto sulle reti Rai e Mediaset dei soggetti politici ed istituzionali, le donne che hanno ottenuto spazi mediatici non superano il 10% del totale. Scompaiono poi progressivamente dal video più ci avvicina alle elezioni, quando “la presenza femminile nelle trasmissioni di carattere politico è inversamente proporzionale alla crucialità del momento”.

    65. Donne sempre più attente: richiedono qualità dei servizi e, se non la ottengono, protestano più degli uomini Diffidano degli arrotondamenti di negozianti, temono gli aumenti dei prezzi provocati dalla moneta unica, hanno ancora qualche difficoltà nella compilazione dei nuovi assegni in euro e maggiori problemi di accesso ai servizi rispetto agli uomini. E’ questo l’identikit delle donne che consumano, tracciato da Cittadinanzattiva in occasione dell’8 marzo, sulla base delle segnalazioni pervenute a Pit Servizi, che raccoglie richieste di intervento da parte dei cittadini, riguardanti disagi e disservizi nell’area dei servizi di pubblica utilità, in particolare sui temi dell’accessibilità, qualità, sicurezza, trasparenza e controversie. Una ricerca che dimostra anche la voglia di partecipazione e di mobilitarsi per tutelare i propri diritti. Sempre più donne infatti, sottolinea l’organizzazione, segnalano problemi sull’introduzione dell’euro, partecipano a campagne di informazione sulla diffusione della nuova moneta e più in generale pretendono maggiori informazioni e trasparenza e cercano servizi di ottima qualità. Se poi non sono soddisfatte, protestano più degli uomini fino ad arrivare ad aprire controversie con i gestori dei servizi.

    66. Le segnalazioni e le richieste di intervento provenienti dalle donne riguardano soprattutto la trasparenza (34%) e la qualità (27%) che si discosta di 2 soli punti percentuali dalla voce controversie. “Le donne che si sono rivolte a Pit Servizi – sottolinea Cittadinanzattiva - vedono nella mancanza di trasparenza il problema più rilevante, hanno una percezione sensibilmente più elevata rispetto agli uomini delle difficoltà di accesso ai servizi, avviano più controversie. Insomma il profilo di una donna molto attiva, che interagisce con i servizi di pubblica utilità con un approccio molto pratico, tendente alla soluzione dei problemi concreti che la separano da una utilizzazione più agevole degli stessi servizi”. Considerazioni che trovano conferma, ad esempio, nelle reazioni delle donne alla introduzione dell’euro: il 67% ha partecipato ad attività di monitoraggio sull’impatto della introduzione della nuova moneta e nel 56% dei casi le donne hanno segnalato problemi relativi alla sua introduzione.

    67. Donne: la percezione  dei servizi di pubblica utilità   Fonte: Pit Servizi, 2002

More Related