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KIERKEGAARD (angoscia, disperazione, fede)

KIERKEGAARD (angoscia, disperazione, fede). prof. Michele de Pasquale. in ogni stadio dell'esistenza l'uomo è possibilità, apertura all’ignoto : vive l’angoscia quegli attimi di sospensione del giudizio e dell'azione di fronte agli aut-aut

carissa
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KIERKEGAARD (angoscia, disperazione, fede)

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Presentation Transcript


  1. KIERKEGAARD(angoscia, disperazione, fede) prof. Michele de Pasquale

  2. in ogni stadio dell'esistenza l'uomo è possibilità, apertura all’ignoto: vive l’angoscia • quegli attimi di sospensione del giudizio e dell'azione di fronte agli aut-aut • quella coscienza della propria libertà di potere unita all'incapacità di decidere a ragion veduta • quella perenne oscillazione generata dal dubbio di non sapere se il possibile che si sceglierà sarà, per colui che sceglie, bene o male • quella condizione in cui l'uomo non è sereno, ma neppure turbato (perché non ha di fronte a sé qualcosa che gli incuta timore), non è in quiete ma neppure in lotta (perché non ha di fronte a sé un nemico da abbattere)

  3. “L’angoscia si può paragonare alla vertigine. Chi volge gli occhi al fondo di un abisso, è preso dalla vertigine. Ma la causa non è meno nel suo occhio che nell’abisso: perché deve guardarvi. Così l’angoscia è la vertigine della libertà, che sorge mentre lo spirito sta per porre la sintesi, e la libertà, guardando nella sua propria possibilità, afferra il finito per fermarsi in esso. In questa vertigine la libertà cade. …” (Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia)

  4. l'angoscia non è il timore che insorge di fronte a qualcosa, a qualcosa che è nota, definita; l’angoscia insorge di fronte al nulla, alle soglie dell'ignoto, al cospetto di qualcosa che non è ma potrebbe essere, cioè al futuro, e che non si può preventivamente determinare è un sentimento che non stimola alla lotta, ma induce solo alla paralisi del pensiero e dell'azione

  5. quest'angoscia è angoscia della morte: l’angoscia che assale alle soglie della scelta deriva dal fatto che il possibile può nascondere la possibilità della morte; ciò deriva dalla consapevolezza che nel possibile tutto è possibile “ Quando la morte si presenta nella sua vera faccia scarna e truculenta, non la si considera senza timore, ma quando essa, per burlarsi degli uomini che si vantano di burlarsi di lei, si avanza camuffata, quando soltanto la nostra meditazione riesce a vedere che, sotto le spoglie di quella sconosciuta, la cui dolcezza ci incanta e la cui gioia ci rapisce nell'impeto selvaggio del piacere, c'è la morte, allora siamo presi da un terrore senza fondo.” (Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia)

  6. bisogna lasciarsi educare dall'angoscia per imparare a svestire dall'illusorietà i vari possibili, cioè per imparare a leggere nelle prospettive che si aprono alla scelta dell'uomo il loro spessore infinito, la loro infinita possibilità di minaccia “In una favola del Grimm si racconta di un ragazzo che andò in cerca di avventure per imparare a sentire l’angoscia. Lasciamo andare quell’avventuriere senza domandare in quale modo egli per la strada potesse imbattersi nel terribile. Vorrei dire, però, che questo – cioè l’imparare a sentire l’angoscia – è un’avventura attraverso la quale deve passare ogni uomo, affinché non vada in perdizione, o per non essere mai stato in angoscia o per essersi immerso in essa; chi invece imparò a sentire l’angoscia nel modo giusto, ha imparato la cosa più alta.%

  7. Se l’uomo fosse un animale o un angelo, non potrebbe angosciarsi. Poiché è una sintesi egli può angosciarsi, e più profonda è l’angoscia più grande è l’uomo; non l’angoscia, come gli uomini l’intendono di solito, cioè l’angoscia che riguarda l’esteriore, ciò che sta fuori dell’uomo, ma l’angoscia ch’egli stesso produce. Soltanto in questo senso bisogna intendere il racconto del Vangelo quando si dice che Cristo fu angosciato fino alla morte (Matteo, 26, 38), come pure quando Egli dice a Giuda: «Quello che fai, fallo presto» (Giovanni, 13, 27). Nemmeno la terribile espressione di Cristo che mise in angoscia lo stesso Lutero quando predicava su di essa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Matteo, 27, 46), nemmeno queste parole esprimono così fortemente il patimento; infatti, coll’ultima si indica uno stato in cui Cristo si trova, la prima invece indica il rapporto con uno stato che non è. L’angoscia è la possibilità della libertà; soltanto quest’angoscia ha, mediante la fede, la capacità di formare assolutamente, in quanto distrugge tutte le finitezze scoprendo tutte le loro illusioni. E nessun grande inquisitore tiene pronte torture così terribili come l’angoscia, nessuna spia sa attaccare con tanta astuzia la persona sospetta, proprio nel momento in cui è più debole, né sa preparare così bene i lacci per accalappiarlo come sa l’angoscia; nessun giudice, per sottile che sia, sa esaminare così a fondo l’accusato come l’angoscia che non se lo lascia mai sfuggire, né nel divertimento, né nel chiasso, né sotto il lavoro, né di giorno, né di notte. %

  8. Colui ch’è formato dall’angoscia, è formato mediante possibilità; e soltanto chi è formato dalla possibilità, è formato secondo la sua infinità. Perciò la possibilità è la più pesante di tutte le categorie. Veramente si sente dire spesso il contrario, che la possibilità è così lieve e la realtà invece tanto pesante. [...] Di solito la possibilità di cui si dice ch’è così lieve, s’intende come possibilità di felicità, di fortuna, ecc. Ma questa non è affatto la possibilità; questa è un’invenzione fallace che gli uomini, nella loro corruzione, imbellettano per avere almeno un pretesto di lamentarsi della vita e della Provvidenza e per avere un’occasione di farsi importanti ai propri occhi. No, nella possibilità tutto è ugualmente possibile e chi fu realmente educato mediante la possibilità, ha compreso tanto il lato terribile quanto quello piacevole. Se un tale esce dalla scuola delle possibilità sapendo, meglio che non un bambino il suo ABC, ch’egli dalla vita non può pretendere assolutamente nulla e che il lato terribile, la perdizione, l’annientamento, abita con ogni uomo a porta a porta, e se ha tratto profitto dall’esperienza che l’angoscia, di cui egli si angosciava, lo assale nel momento seguente, allora darà alla realtà un’altra spiegazione; esalterà la realtà, e anche quando essa pesa grave sopra di lui, si ricorderà ch’essa è molto più leggera di quanto non fosse la possibilità. [...] (Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia)

  9. l’ educazione dell’angoscia implica la fede, perché solo questa fa compiere quel salto di qualità, quel passaggio dalla condizione finita a quella infinita, senza il quale non è possibile disimpigliarsi dai lacci dell'angoscia “ Ma perché un individuo sia formato così assolutamente e infinitamente mediante la possibilità, egli dev’essere sincero di fronte alla possibilità e deve avere la fede. Per fede io intendo qui quello che per una volta Hegel, a modo suo, determina molto giustamente: la certezza interiore che anticipa l’infinito. Se le scoperte della possibilità sono trattate con sincerità, la possibilità scoprirà tutte le cose finite, idealizzandole però nella forma dell’infinità, e abbatterà nell’angoscia l’individuo finché esso, da parte sua, non le vincerà nell’anticipazione della fede.” (Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia)

  10. sia come elemento che caratterizza la vita dell'esteta sia come condizione che permette il salto dalla vita etica a quella religiosa riprendendo il tema della disperazioneKierkegaard precisa che essaè sempre una negazione di sé, del proprio io l'uomo è sempre alla ricerca di se stesso, di un io che non coincide mai con quello che di volta in volta egli è, e che però egli non trova mai essa è rifiuto totale di sé, è quella rinuncia a sé che si traduce, sul piano della fede, nella assoluta autodonazione a Dio

  11. del singolo con il mondo sia la disperazione che l'angoscia caratterizzano un rapporto del singolo con se stesso l'angoscia insorge al cospetto di quegli infiniti possibili, e dell'infinità del possibile che il mondo rappresenta per l'uomo la disperazione nasce di fronte a quella radicale incognita che è il proprio io

  12. quello di accettare di essere se stesso quello di rifiutare di essere se stesso due sono i possibili modi di relazionarsi a se stesso: la disperazione si verifica in entrambi i casi il singolo si dispera quando percepisce che non c'è piú alcuna possibilità di trovare il vero se stesso, e vi rinuncia; vorrebbe semplicemente distruggere se stesso senza potervi riuscire: questa è la forma piena, totale, della disperazione, è quella che Kierkegaard chiama malattia mortale il singolo si dispera perché vuole ma non riesce a trovare se stesso nei vari possibili, in quanto tutte le possibilità di essere se stesso si rivelano insufficienti e inadeguate

  13. “Questo concetto della malattia mortale dev’essere inteso in un modo particolare. Letteralmente, esso significa una malattia la cui fine, il cui esito, è la morte. Così si dà ad una malattia con esito letale il significato di malattia mortale. In questo senso la disperazione non si può chiamare malattia mortale. Ma, intesa cristianamente, la morte stessa è un passaggio alla vita e pertanto, nel senso cristiano, nessuna malattia terrena, fisica, è mortale. Perché certamente la morte è la fine della malattia, ma la morte non è la fine. Se si volesse parlare di una malattia mortale nel senso più stretto questa dovrebbe essere una malattia in cui la fine sarebbe la morte, e la morte sarebbe la fine. E questa è per l’appunto, la disperazione. Ma in un altro senso la disperazione è la malattia mortale in un modo ancora più determinato. Perché non bisogna pensare che, nel senso letterale, si muoia di questa malattia o che questa malattia finisca con la morte fisica. Al contrario, il tormento della disperazione è proprio non poter morire. Perciò somiglia più allo stato del moribondo quando si torce nella lotta con la morte e non può morire. Quindi cadere nella malattia mortale è non poter morire, ma non come se ci fosse la speranza della vita, anzi, l’assenza di ogni speranza significa che qui non c’è nemmeno l’ultima speranza, quella della morte. Quando il maggiore pericolo è la morte, si spera nella vita; ma quando si conosce il pericolo ancora più terribile, si spera nella morte. Quando il pericolo è così grande che la morte è divenuta la speranza, la disperazione è l’assenza della speranza di poter morire.%

  14. In quest’ultimo significato la disperazione è chiamata la malattia mortale: quella contraddizione tormentosa, quella malattia nell’io di morire eternamente, di morire eppure di non morire, di morire la morte. Perché morire significa che tutto è passato, ma morire la morte significa vivere, provare vivendo il morire: e poter vivere in questo stato per un solo momento vuol dire doverlo vivere in eterno. Se un uomo potesse morire di disperazione come si muore di una malattia, l’eterno in lui, l’io, dovrebbe morire nello stesso senso in cui il corpo muore della malattia. Ma questo è impossibile: il morire della disperazione si trasforma continuamente in un vivere. Il disperato non può morire; «come il pugnale non può uccidere i pensieri», così la disperazione non può distruggere l’eterno, l’io che sta alla base della disperazione, «il cui verme non muore, il cui fuoco non si spegne». Però la disperazione è un’autodistruzione, ma un’autodistruzione impotente che non è capace di fare ciò che essa stessa vuole. Ciò che vuole è distruggere se stessa, il che non è capace di fare; o quest’impotenza è una nuova forma di autodistruzione nella quale la disperazione si eleva a potenza. Questo è il dolore ardente, il bruciore gelido nella disperazione, che rode e consuma, continuamente rivolto verso l’interno, e che si addentra sempre di più in un’autodistruzione impotente. Lungi dall’essere un conforto per il disperato, il fatto che la disperazione non lo distrugge è piuttosto il contrario; quel conforto è proprio il suo tormento, è ciò che mantiene in vita il dolore che rode e la vita nel dolore; infatti, appunto per questo egli non si è disperato, ma si dispera: perché non può distruggere se stesso, non può liberarsi di se stesso, non può annientarsi.” (Kierkegaard, La malattia mortale)

  15. dalla disperazione - identificata col peccato - si esce con la decisione di credere: più l’uomo è consapevole della sua disperazione tanto più è cosciente della sua lontananza da Dio, ma tanto più è vicino alla decisione che avviene attraverso l’accettazione del paradosso il paradosso è Cristo: l’eternità che si fa tempo in un esistente è una contraddizione che il pensiero non può accettare

  16. “ Ma la disgrazia dei nostri tempi è quella di aver fatto una scorpacciata di sapere, è di aver dimenticato cos’è l’esistere e cosa deve significare l’interiorità: perciò era importante che il peccato non fosse concepito con determinazioni astratte, con le quali non lo si può afferrare, almeno in modo decisivo, perché esso sta in un rapporto essenziale con l’esistere. … La categoria del peccato è la categoria del “singolo”. Il peccato non si può pensare affatto speculativamente; perché il singolo uomo è al di sotto del concetto: non si può pensare un singolo uomo, ma soltanto il concetto dell’uomo.” (Kierkegaard, Briciole di filosofia)

  17. “Ma che cos'è allora questo Sconosciuto, contro il quale l'intelletto va a sbattere nella sua passione paradossale e che confonde all'uomo la sua conoscenza di sé? È l'Ignoto. Esso però non è qualcosa di umano, per quanto noi conosciamo l'uomo, e neppure qualche altra cosa che noi conosciamo. Questo sconosciuto, chiamiamolo allora Dio. Questo attributo, che gli diamo, è soltanto un nome. Di dimostrare che questo sconosciuto (Dio) esiste, l'intelligenza ci pensa appena. Se Dio non esiste, allora è certamente impossibile dimostrarne l'esistenza; ma se esiste, è una vera scemenza volerlo dimostrare; poiché precisamente nel momento in cui incomincio la dimostrazione, io l'ho già presupposto non come una cosa dubbia - ciò che non potrebbe di certo essere un presupposto - ma come cosa già pacifica, perché altrimenti non avrei incominciato a dimostrarlo, perché si comprende facilmente che tutto ciò sarebbe impossibile se Dio non esistesse.” (Kierkegaard, Briciole di filosofia)

  18. “… ciò di cui il nostro tempo ha bisogno – nel senso piú profondo – si può esaurientemente dire con una sola parola, ha bisogno di eternità. La disgrazia del nostro tempo è che non è diventato altro che “tempo”, temporalità, che, impaziente, non vorrebbe sentir parlare di eternità, che anzi, con buone condizioni o in preda a frenesia, vorrebbe rendere del tutto superfluo l’eterno con una artificiosa imitazione; il che però non gli riuscirà, in tutta l’eternità, perché quanto piú si crede di poter fare a meno dell’eterno, quanto piú ci si irrigidisce nel pensare che si può fare a meno di lui, tanto piú, in fondo, si ha bisogno di lui.” (Kierkegaard, Gli scritti su se stesso)

  19. la non accettazione del paradosso è lo scandalo; scandalizzarsi è non accettare il rischio, l’incertezza della fede, che nessuna prova storica può togliere la riduzione del cristianesimo a dottrina, la pretesa della filosofia di comprendere tale dottrina, hanno abolito la possibilità dello scandalo riducendo il cristianesimo ad un paganesimo amabile Cristo è diventato momento di mediazione, al posto di essere segno di contraddizione

  20. “Al pari del concetto di “fede” anche quello di “scandalo” è una categoria specificamente cristiana che si riferisce alla fede. La possibilità dello scandalo è una specie di bivio, pone dinanzi a un bivio. Ci si allontana da questa possibilità per andare o allo scandalo o alla fede; ma non si giunge mai alla fede senza passare attraverso la possibilità dello scandalo. Lo scandalo si riferisce essenzialmente all’unione di Dio e dell’uomo, o all’Uomo-Dio. La speculazione ha naturalmente creduto di poter “concepire” l’Uomo-Dio, e s’intende, perché la speculazione lo spoglia delle determinazioni di temporalità, di contemporaneità, di realtà. Insomma, e non si esagera a dire che ciò significa semplicemente abbandonarsi a delle buffonate e farsi beffe della gente, è triste e terribile vedere che quest’atteggiamento ha ricevuto gli onori di una profonda teoria. No, l’Uomo-Dio è legato anche alla situazione, quella situazione in cui l’individuo al tuo fianco è l’Uomo-Dio. Questi non è l’unità di Dio e dell’uomo, una simile terminologia è una profonda illusione ottica. L’Uomo-Dio è l’unità di Dio e di un individuo particolare. Che il genere umano sia o debba essere imparentato con Dio, è paganesimo antico; ma che un uomo particolare sia Dio, è cristianesimo, e quell’uomo particolare è l’Uomo-Dio. Né in cielo, né in terra, né all’inferno, né nei traviamenti del pensiero piú fantastico si incontra la possibilità di un’associazione cosí folle per la nostra ragione. Lo si riconosce quando si è nella situazione di contemporaneo, e non c’è possibilità di rapporto con l’Uomo-Dio senza mettersi prima in questa situazione.” (Kierkegaard, Scuola di cristianesimo)

  21. “La questione non è se il cristianesimo abbia ragione, ma cosa esso sia. La speculazione trascura questa chiarificazione preliminare ed è per questo che le riesce il gioco della mediazione. Prima ch’essa si metta a fare la mediazione in realtà l’ha già fatta, in quanto ha già trasformato il cristianesimo in una dottrina filosofica. Se invece l’accordo preliminare stabilisce che il cristianesimo è l’antitesi della speculazione, allora eo ipso la meditazione è impossibile, perché ogni mediazione avviene all’interno della speculazione. Se il cristianesimo è l’antitesi della speculazione, è anche l’antitesi della mediazione, perché la mediazione è l’essenza della speculazione: che senso può avere allora il "mediare" il cristianesimo? Ma cos’è l’antitesi della mediazione? È il paradosso assoluto.” (Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica)

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